![]() Cerbero, il guardiano all’ingresso del regno dei morti, era il cane di Ades, dio degli Inferi. Avendo superato ogni precedente prova, ad Eracle venne ordinato di scendere nelle oscurità del terribile regno sotterraneo, abitato dalle anime dei defunti, per catturare la bestia dalle numerose teste, fratello della Idra di Lerna di cui abbiamo già parlato. Euristeo, il quale voleva la morte dell’Eroe, era sicuro che Eracle non sarebbe mai potuto tornare da quel luogo oscuro e confidava, quindi, nel raggiungimento dello scopo che si era prefissato ormai da lungo tempo. Ma da dove (e come) Eracle riuscì a raggiungere gli Inferi? Pare che l’Eroe avesse viaggiato fino a raggiungere la parte meridionale del Peloponneso, e fosse disceso nelle viscere della terra una volta entrato in una caverna. Come sempre esistono diverse versioni anche di quest’avventura. Quella che ho scelto spiega che l’Eroe entrò nella caverna come un guerriero: brandendo l’arma, anche se solo lo scontro a mani nude, o il lancio dei sassi, avrebbero potuto sortire qualche effetto contro gli dèi degli Inferi. Ad un certo punto, un corso d’acqua paludosa interruppe il suo cammino, rendendo necessario trovare il modo di raggiungere l’altra sponda. Esisteva una sola imbarcazione adatta alla bisogna e si trattava della barca di legno governata da Caronte. Il vecchio traghettatore, seppur dotato di una forza straordinaria, s’intimorì alla presenza dell’Eroe e si rese disponibile ad accompagnarlo nell’attraversata. Per questo venne punito, successivamente, e legato per un intero anno con delle pesanti catene. Di là, aspettava Cerbero. Il suo compito era quello di selezionare chi poteva entrare nel regno dei morti e chi, invece, doveva allontanarsi. Le sue fattezze mostruose comprendevano la presenza di numerose teste e serpi cresciute sul resto del suo corpo. Quando al suo cospetto si presentava qualcuno che era destinato ad entrare nell’Ade, scodinzolava benevolo, ma se quella persona faceva cenno di voler tornare sui propri passi, allora Cerbero lo assaliva e si cibava delle sue carni. Questo terribile mostro si palesò di fronte ad Eracle, ma anche lui come Caronte si spaventò al suo cospetto e fuggì andando a nascondersi sotto il trono di Ades, lasciando senza protezione l’ingresso del regno dei morti. Così Eracle poté entrarvi e continuare il viaggio tra le anime dei defunti. Al suo passaggio le ombre si ritrassero, cercando di nascondersi alla vista dell’Eroe. Nessuno osò affrontarlo ed egli fu libero di proseguire il sentiero alla ricerca del cane e dei suoi padroni. Si racconta che solo l’anima di Meleagro ebbe il coraggio di palesarsi. Splendente nella sua corazza, Meleagro si mosse verso Eracle. Questi tese l’arco come per prepararsi a colpire, ma l’anima del defunto lo invitò ad abbassare l’inutile arma che non avrebbe potuto fermarlo, né ferirlo. Ottenuta l’attenzione di Eracle, Meleagro si presentò come un essere amichevole e spiegò all’Eroe la sua triste storia e quella di sua sorella, Deianira, rimasta sola con il padre. Pare che il racconto fosse stato così toccante da portare Eracle alle lacrime per la prima volta nella sua vita. Commosso, l’Eroe promise di sposare Deianira al suo ritorno nel mondo dei vivi. Salutato Meleagro, Eracle riconobbe, durante il proprio cammino, alcune figure degne di nota come Medusa e il pastore Menenzio, colui che aveva avvisato Gerione proprio dell’arrivo dell’Eroe nei suoi territori durante una delle avventure che abbiamo visto pochi episodi fa. Raggiunti i sovrani (Ades e sua moglie Persefone), sappiamo, grazie ad una pittura vascolare molto antica, che Eracle lanciò verso di loro un sasso e che tanto bastò per far scappare il dio degli Inferi in una direzione e il suo cane Cerbero nell’altra. Soltanto Persefone (anch’essa figlia di Zeus) rimase a fronteggiare Eracle, accogliendolo con gentilezza. Non fu complicato raggiungere un accordo con Ades, il quale, una volta tornato al proprio posto, concesse ad Eracle di catturare Cerbero e di portarlo con sé, ma solo a patto che l’Eroe usasse le sole mani per sottomettere la bestia, senza l’aiuto di nessuna arma. Eracle tornò quindi all’ingresso degli Inferi dove ritrovò Cerbero intento a svolgere la propria funzione. Lo afferrò per il collo e lo indusse alla resa, riuscendo ad incatenarlo. Così lo trascinò fuori dal mondo sotterraneo e, tornato alla luce, s’incamminò verso Micene. In città, tutti gli abitanti si allontanarono impauriti dalla belva dagli occhi fiammeggianti che continuava ad opporre resistenza, sbavando per lo sforzo. Lo stesso Euristeo corse a nascondersi (nel rifugio che aveva fatto interrare già molto tempo prima), per paura di essere assalito. Non vi è certezza sulla fine che fece successivamente Cerbero. Alcune storie dicono che venne riportato a casa da Eracle; altre, invece, raccontano che la belva riuscì a scappare e cominciò a vagare, libero e famelico, tra Micene ed un sacrario dedicato ad Era. Eracle tornò molto cambiato da quest’avventura negli Inferi e gli venne attribuito l’appellativo “Callinico” (“dalla bella vittoria”) in riferimento alla più importante delle vittorie: quella riportata sulla morte. ![]() Euristeo affidò una nuova missione ad Eracle: avrebbe dovuto cogliere alcuni pomi da un albero molto caro alla dèa Era. Pare che l’albero fosse il regalo di nozze della Madre Terra per la regina degli dèi, la quale nascose il prezioso dono all’interno del giardino delle Esperidi e ne pose a guardia il serpente Ladone. A nessuno era permesso di raccogliere neppure una sola mela d’oro, pena la morte. Ma come cogliere i pomi rappresentava un problema secondario. Al momento della partenza, il primo ostacolo da superare era trovare la strada ed il modo per giungere sino al giardino delle Esperidi. Eracle ci era già stato, tempo prima, durante l’inseguimento della cerva di Cerinea, ma solo per puro caso. Raggiungere quel luogo appositamente era tutta un’altra questione. Il giardino delle Esperidi era posto ai confini del mondo e vi potevano accedere solo esseri immortali. Se un essere comune, un mortale, avesse provato ad entrarvi, sarebbe morto. Così come era capitato a Perseo, alla ricerca della tana di Medusa, Eracle dovette rivolgersi a vecchie divinità, figlie di Zeus, per ottenere consigli e indicazioni. Sollecitate dal nostro Eroe, queste dissero di cercare il vecchio del mare, Nereo. E così fece Eracle. Trovatolo, riuscì, solo dopo averlo combattuto e vinto, ad ottenere le informazioni necessarie per proseguire il viaggio. In una versione di quest’avventura Eracle s’imbatté, lungo il cammino, anche in Prometeo, il Titano benefattore dell’umanità che era stato condannato da Zeus ad una punizione terribile. Egli, infatti, era stato legato (o infilzato) ad un palo e, impossibilitato nei movimenti, non aveva modo di evitare che un’aquila si nutrisse del suo fegato durante il giorno. Di notte il fegato di quell’essere immortale si rigenerava, così che Prometeo soffrisse ripetutamente la tortura. La tragedia Prometeo liberato racconta che Eracle, una volta raggiunto Prometeo, uccise l’aquila e liberò il Titano, ricevendo da quest’ultimo ulteriori indicazioni circa il percorso da seguire per giungere al giardino delle Esperidi e, soprattutto, alcuni preziosi consigli su come ottenere i pomi d’oro riducendo il più possibile i rischi. Prometeo disse ad Eracle di evitare le Esperidi e Ladone – che si trovavano nelle vicinanze dell’albero – bensì di cercare Atlante e di mandarlo a raccogliere le mele al posto suo. Seguendo le indicazioni di Prometeo, Eracle continuò il viaggio attraversando il regno del vento del nord, nel quale terribili bufere si abbattevano con forza inaudita. Poi vide il paese degli Sciti, il popolo che si nutriva del latte delle loro cavalle, e il paese dei Gabi, la gente più gentile ed ospitale della terra che non doveva coltivare i campi per ottenerne i frutti, dato che questi crescevano spontanei. Proseguendo, Eracle giunse alla sorgente del fiume Istro che noi conosciamo come Danubio e, infine, arrivò ai confini del giardino. In quanto essere immortale, Eracle poté entrarvi per cercare Atlante e lo trovò a reggere il cielo come la punizione che aveva ricevuto prevedeva. Atlante, considerato un dio molto furbo, una volta ascoltata la richiesta di Eracle acconsentì ad andare a prendere i pomi d’oro, ma solo a patto che, nel frattempo, l’Eroe reggesse il cielo al posto suo. Liberatosi dalla terribile punizione, il Titano raggiunse l’albero dalle mele d’oro e riuscì a coglierne i frutti, anche se non ci è dato sapere a quale astuzia dovette ricorrere. Raggiunto l’obiettivo, Atlante tornò da Eracle e cercò di convincerlo che sarebbe stato meglio continuasse a reggere il cielo ancora per un po’, mentre lui avrebbe affrontato il viaggio per Micene e avrebbe consegnato le mele ad Euristeo. Il nostro Eroe, immaginando le vere intenzioni del Titano, e cioè scappare abbandonando il gravoso compito che gli era stato assegnato, recitò e finse di credere alla sua buona fede. Innocentemente, chiese ad Atlante un ultimissimo favore, quello di dargli il cambio solo per pochi istanti, il tempo necessario per preparare un copricapo di stoffa che lo aiutasse ad attutire il peso della volta celeste. Atlante, dimostrandosi molto più ingenuo di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi, riprese la sua vecchia posizione, convinto che Eracle avrebbe mantenuto la parola data. Ma così non fu: Il nostro Eroe prese i pomi d’oro e salutò il Titano, lasciandolo solo a sostenere l’immane peso. Quando Eracle tornò a Micene, Euristeo si rifiutò di prendere in consegna il prezioso carico e lo lasciò in dono all’Eroe stesso. Ma quelle mele erano davvero molto care ad Era, per cui il nostro Eroe decise di restituirle alla legittima proprietaria. ![]() Come abbiamo detto nell’episodio precedente, Eracle dovette affrontare diverse minacce durante il suo viaggio di ritorno in patria. In una delle battaglie nate per difendere i buoi, si scontrò con due figli di Poseidone che lo assalirono presso la costa ligure. Sconfitti questi, Eracle si trovò costretto a difendere il bestiame dal popolo dei Liguri. Avendo finito tutte le frecce che gli erano rimaste, si ridusse a lanciare i sassi che trovava ai suoi piedi. Ma anche questi si esaurirono, lasciandolo esposto ad una molto probabile sconfitta. Solo grazie all’intervento di suo padre, Zeus, riuscì a condurre la battaglia in suo favore. Il signore degli dèi fece cadere dal cielo una pioggia di pietre, fornendo così nuove armi al figlio in difficoltà che poté definitivamente prevalere sugli aggressori. Ripreso il cammino verso casa, Eracle giunse nei pressi del Tevere, dove, tempo dopo, sarebbe sorta Roma. Da quelle parti, sull’Aventino, abitava Caco, figlio di Efesto, dio del fuoco (Vulcano nella mitologia Romana). Come Gerione, Caco aveva tre teste. Inoltre, possedeva la terribile abilità di uccidere le sue vittime col fuoco che sputava dalla bocca. Quando Eracle passò vicino alla grotta nella quale si era rintanato, Caco sottrasse quattro mucche e quattro tori alla mandria e, senza farsi notare, li portò con sé facendoli camminare a ritroso. In questo modo, ricalcando le loro stesse orme, le bestie non lasciarono traccia del loro cambio di direzione. Ma Eracle si accorse del furto perché gli animali rapiti muggirono, segnalando, così, la loro posizione. A quel punto, furioso, l’Eroe si diresse verso l’Aventino. Riuscito a tornare alla sua caverna per tempo, uno spaventatissimo Caco decise di mettere un masso davanti all’ingresso e di bloccarlo con delle catene; pensava, in questo modo, di aver reso impenetrabile il proprio rifugio. Eracle, però, non si fece fermare da questo espediente. Non potendo togliere il masso posto a sigillo da Caco, ne asportò un altro, una parte della montagna che costituiva, praticamente, il tetto del nascondiglio. Esposta alla vista del nostro Eroe, la caverna si presentò come un luogo simile al regno dei morti. Caco cercò inutilmente di uccidere Eracle e perì in battaglia. Trascinato il cadavere semi-umano all’esterno, l’Eroe liberò i capi rubati e li riunì alla mandria. Nel punto dove erano stati lasciati i resti di Caco, gli abitanti eressero, in segno di ringraziamento, un altare chiamato “Ara maxima” che costituì il primo centro di culto di Eracle. Lungo il suo viaggio, Eracle giunse sino alla punta meridionale dell’Italia dove un toro, scappato dal resto dell’armento, si gettò in acqua e si diresse verso la Sicilia. Da questo episodio, prese il nome la vicina città: Rhegion (liberarsi), che noi conosciamo come Reggio. L’intera zona circostante venne battezzata, partendo dal termine latino “vitulus” (che significa giovane toro, vitello), con il nome di Vitalia, successivamente divenuto Italia. Tornando agli accadimenti che stavamo seguendo, Eracle, non potendo perdere nemmeno un singolo animale dell’armento che stava conducendo, decise di deviare dal percorso tracciato e d’inseguire il vitello. Mentre attraversava lo stretto di Messina, Scilla sottrasse alcuni capi del prezioso bestiame, costringendo Eracle ad intervenire e punirla con la morte. Giunto finalmente in Sicilia, Eracle scoprì che Erice, un altro dei figli di Poseidone, aveva preso il vitello che si era allontanato, e voleva sottrarlo indebitamente. Anche lui subì la sorte che toccata a Scilla. Altre vicissitudini capitarono durante questo lungo e periglioso viaggio, ma ho cercato di semplificare il racconto per non bloccarci qui per troppo tempo. Aggiungo solo che, una volta arrivati a Micene, re Euristeo decise di sacrificare i buoi rossi appartenuti a Gerione in onore alla dèa Era. ![]() In questo episodio, sono molte le storie che si intrecciano. Cercherò di rendere quest’avventura più semplice e lineare possibile, innanzitutto per non perdermi io stesso nelle mille sfaccettature. Eracle, che ha affrontato finora davvero di tutto, venne mandato ancora più lontano rispetto alle ultime avventure: un’isola sulla quale vivevano, tra gli altri, Gerione, Euritione e il suo cane Ortro. Permettetemi di introdurre questi tre personaggi, fondamentali per il racconto. Vi ricordate la storia di Perseo e Medusa che abbiamo visto qualche episodio fa? Potete trovarla scorrendo a ritroso i capitoli della collana “Avventura mitologica”, pubblicata su questo blog. Perseo, ad un certo punto, riuscì nel suo intento: uccise Medusa tagliandole la testa. Dal collo di quell’essere mostruoso nacquero Pegaso, il cavallo alato, e Crisaore. Quest’ultimo si unì a Calliroe che partorì Gerione. Egli, come il padre, era un gigante votato alla guerra, dotato di tre corpi (dalla cintola in su), sei braccia e tre teste. Di Euritione dirò solo che era figlio di Ares, dio della guerra (nei suoi aspetti più violenti e non strategici). Ortro, il cane di Euritione, aveva due teste ed era fratello di Cerbero e dell’Idra di Lerna, di cui ho raccontato nei primi episodi delle dodici fatiche. Fatte queste veloci e sommarie presentazioni, non ci rimane che capire cosa successe e quali pericoli dovette affrontare il nostro Eroe. Giunto a Eritia (Eritrea) con l’ordine di sottrarre i buoi scarlatti di Gerione, Eracle dovette misurarsi ben presto con Euritione, il pastore e guardiano delle stalle nebbiose, ed il suo cane Ortro. In breve, entrambi vennero uccisi dal nostro Eroe a colpi di clava, ma qualcuno nelle vicinanze aveva assistito all’avvenimento e corse ad avvisare Gerione prima che Eracle potesse allontanarsi col bestiame. Potete immaginare quanto sia stata avvincente la lotta tra i due, considerando che il gigante si presentò armato di tutto punto: tre mani impugnavano delle lance, mentre ciascuna delle altre tre opponeva uno scudo ai colpi portati da Eracle. Nonostante il difficile confronto, l’Eroe riuscì ad avere la meglio e ad uccidere quell’essere possente. Una volta radunati gli animali, cominciò il lungo viaggio di ritorno, pieno anch’esso di numerose difficoltà dato che Eracle dovette proteggere molto spesso il bestiame dai vari tentativi di furto. Per tornare in patria, però, non tornò sui suoi passi, bensì decise di attraversare numerosi paesi dell’Africa settentrionale, sino a giungere a quello che noi conosciamo come stretto di Gibilterra, dove creò le famose colonne d’Ercole. Da quel punto di confine tra l’Africa e l’Europa, continuò attraversando il nostro continente fino ai confini italiani. Continua martedì 23-05 ![]() Quest’avventura riguarda il famoso popolo delle Amazzoni: donne guerriere che abitavano nei pressi del fiume Termodonte, nel sud dell’Asia. L’immagine che molti hanno di queste donne, però, è totalmente distorta a causa del livello di maschilismo contenuto in una certa letteratura – e in alcune proposte cinematografiche o televisive – che le ha ridotte a sensuali oggetti erotici. In realtà, è molto più credibile figurarsi queste donne come veri e propri guerrieri, con poche velleità di essere seducenti e con tradizioni e riti che potrebbero anche sembrare crudeli, ma che risultavano logiche conseguenze per delle creature votate alla caccia e alla guerra. Per non essere intralciate nell’uso dell’arco, per esempio, si amputavano volontariamente uno dei due seni (o addirittura entrambi), potendo così allattare le proprie figlie solo con quello rimanente. L’origine stessa della parola amazzone conterrebbe in sé la combinazione di due termini: “senza” e “mammella”. I figli maschi venivano uccisi o allontanati. Alcune opere raccontano di uomini storpiati, resi inabili alla battaglia e mantenuti in vita per la procreazione e per attendere alle faccende meno “nobili”. Eracle venne mandato in quelle lontane terre per accontentare Admeta, figlia di Euristeo, che desiderava ardentemente il cinto d’Ippolita, regina delle Amazzoni. Il cinto era una sorta di “cintura”. Nella tradizione greca, le ragazze lo legavano in vita e serviva anche per coprire e proteggere i genitali; il rito popolare prevedeva che questa “cinta” venisse sciolta dal marito la prima notte di nozze. Per Ippolita quell’oggetto rappresentava anche un prezioso regalo ricevuto dal padre Ares, personaggio che abbiamo nominato spesso nel corso delle ultime fatiche di Eracle. Una volta raggiunta la terra delle Amazzoni, il nostro Eroe riuscì nel proprio intento, ma esistono differenti versioni del modo in cui ottenne il successo. Secondo una di queste, Ippolita avrebbe accolto la richiesta pacifica di Eracle, forse per la stima che portava nei suoi confronti, e gli avrebbe donato il cinto senza opporsi. Un’altra versione spiega che il cinto venne sì ceduto da Ippolita in modo pacifico, ma solo per riscattare la sorella, rapita dagli uomini di Eracle e tenuta in ostaggio. Altre opere raccontano che la dèa Era assunse le sembianze di un'amazzone e diffuse un terribile dubbio tra le guerriere: le vere intenzioni di Eracle sarebbero state quelle di rapire l’amata Ippolita, non di prendere solamente il cinto. Per proteggere la loro regina, il popolo delle Amazzoni insorse, dando vita ad una feroce battaglia nella quale morirono molte di loro. Il cinto venne tolto ad Ippolita solo dopo che quest’ultima fu uccisa da Eracle. Ricevuto l’oggetto tanto agognato, pare che Admeta lo custodì gelosamente nelle proprie stanze, o presso il santuario dedicato ad Era, nel quale serviva in qualità di sacerdotessa. ![]() Minosse, figlio di Zeus ed Europa, era stato adottato da Asterio (re di Creta) che aveva sposato Europa dopo che questa aveva giaciuto con il signore degli dèi. Alla morte del padre adottivo, Minosse costruì un altare in onore di Poseidone, con l’intento di chiedergli di riconoscere la legittimità della sua successione al trono. Il dio del mare diede il proprio benestare e fece nascere un bellissimo toro bianco dalla spuma delle onde, come segno di benevolenza. L’animale avrebbe dovuto essere sacrificato sull’altare, ma così non avvenne. Di fronte alla maestosa bellezza di quella bestia, Minosse indugiò e decise di tenerlo per sé. Lo portò nelle stalle e tentò d’ingannare Poseidone uccidendo un altro toro al suo posto. Il dio si accorse del vile tentativo del re e lo punì duramente: rese il toro ingestibile perché accecato dalla furia e fece in modo che Pasifae (la moglie di Minosse), s’innamorasse della bestia. In preda ad una passione incontrollabile ed insana, quest’ultima chiese ad un’artista di nome Dedalo di aiutarla ad esaudire il proprio desiderio. Egli risolse il problema creando una statua di legno (cava al proprio interno) raffigurante una giovenca. Pasifae poté, quindi, nascondersi dentro di essa e congiungersi carnalmente con l’animale. Dal quel rapporto nacque il celebre Minotauro. Creatura con la testa di toro e corpo di uomo, dominato da istinti violenti, venne rinchiuso (e nascosto), in un labirinto costruito appositamente da Dedalo su ordine di Minosse. Il toro nato dalle acque, invece, fu oggetto della fatica di Eracle dato che Euristeo inviò l’Eroe a Creta per catturarlo. Esistono fondamentalmente due versioni di questa operazione: una presenta Eracle mentre, grazie all’uso di una corda, riesce a domare l’animale legandogli il muso e bloccandogli una delle zampe anteriori; l’altra mostra l’Eroe mentre sottomette la bestia usando esclusivamente la propria forza. Il risultato, in entrambi i casi, è che l’animale venne catturato e condotto sino a Micene per poi essere lasciato libero. Successivamente, Teseo gli diede la caccia e riuscì, con grande difficoltà, ad ucciderlo, sacrificandolo al dio Apollo. In origine, le fatiche di Eracle non erano dodici, ma dieci. Questa del toro di Creta è una delle due storie che vennero aggiunte successivamente. ![]() A partire da questa avventura, Euristeo (il pauroso re di Micene), cominciò ad affidare missioni sempre più lontane al mitico Eracle. In questo caso, l’Eroe venne mandato in Tracia con il compito di portare via quattro cavalle al re Diomede. Quest’ultimo, figlio di Ares, il dio della guerra, possedeva delle cavalle molto particolari che teneva legate, con catene di ferro, ad una mangiatoia di bronzo. Sicuramente imparentati con le Arpie e le Gorgoni (che abbiamo già incontrato), questi animali si nutrivano solo di carne umana, proprio come gli uccelli del lago Stinfalo, collegati anch’essi al famoso Ares. Come sempre, esistono diverse versioni su come Eracle sia riuscito a compiere la propria missione. In una, l’Eroe ammansì le cavalle dando loro in pasto lo stesso Diomede. Sazie, vennero condotte a Micene, dove furono consacrate ad Era, che decise di preservarne la razza. A tal proposito, sembra che Bucefalo (il cavallo di Alessandro Magno) fosse un discendente delle cavalle di Diomede. Un’altra versione, invece, vede Eracle viaggiare per mare accompagnato da alcuni compagni, tra i quali il suo caro amico Abdero. Giunto a destinazione, il gruppo riuscì a sopraffare le guardie alla mangiatoia e a rubare le cavalle. Durante la strada di ritorno verso il mare e la nave, Eracle si accorse di essere seguito da Diomede e dai suoi uomini. Ordinò, quindi, ad Abdero di rimanere a guardia delle cavalle e andò ad affrontare gli inseguitori. Dopo aver sconfitto i nemici, tornato dove aveva lasciato l’amico, Eracle scoprì che Abdero era stato ucciso e il suo corpo dilaniato. Si racconta che la città di Abdera venne fondata proprio vicino a quel luogo, dove Eracle decise di seppellire il compagno. Ripreso il controllo sulle bestie sanguinarie, l’Eroe completò il viaggio e riuscì a tornare a Micene. ![]() Nel Peloponneso (sulla costa occidentale della Grecia), si trovava la regione di Elide, governata da re Augia. Pare che le ricchezze di quest’ultimo fossero enormi e derivassero addirittura dal dio del Sole. Egli possedeva un numero incredibile di capi di bestiame, giudicato il più numeroso in assoluto. Alcune storie raccontano che dodici enormi tori bianchi facessero la guardia alle sue stalle e che gli animali in esse contenuti fossero di origine divina: immortali ed esenti da malattie. Per questo motivo, il re lasciava che vivessero nella sporcizia. Con il passare del tempo, però, i cumuli di escrementi raggiunsero dimensioni vastissime, coprendo persino i campi circostanti. Di fatto, questa situazione danneggiava pastori ed agricoltori che perdevano via via sempre più terreni e vedevano morire parte del proprio bestiame a causa delle malattie sorte per via di questa noncuranza. Euristeo ordinò ad Eracle di porvi rimedio. Arrivato al cospetto del re Augia, Eracle non rivelò di aver ricevuto l’incarico da Euristeo e gli propose un accordo: se avesse pulito le stalle in un solo giorno, il re gli avrebbe consegnato un decimo del proprio bestiame come ricompensa. Augia, incredulo, decise di accettare l’offerta e strinse il patto alla presenza di suo figlio, Fileo. Ma come poteva fare Eracle a raggiungere lo scopo? In una metopa molto antica, ritrovata ad Olimpia, l’Eroe viene raffigurato mentre maneggia scopa e badile. Opere successive, invece, raccontano che egli abbatté porzioni del muro di cinta delle stalle e, grazie alla sua forza sovraumana, deviò il corso di due fiumi per far sì che l’acqua vi scorresse all’interno. Terminato il lavoro nei tempi previsti, Eracle si presentò al cospetto del re convinto di ricevere il compenso pattuito. Quest’ultimo, venuto a sapere nel frattempo degli ordini di Euristeo, si rifiutò di onorare il contratto, negando di averlo accettato. A questo punto, Lepreo “lo scabbioso” suggerì al re di fare incarcerare Eracle e di sottoporre la questione all’attenzione dei giudici. Durante il processo venne interpellato anche Fileo che, confermando la versione di Eracle, fece infuriare il padre. Questi decise, allora, di cacciare l’Eroe e il figlio dal regno prima che i giudici avessero modo di esprimere il verdetto. Probabilmente, questo litigio divenne uno dei motivi che portò Eracle a combattere contro Augia in futuro. Resta da sottolineare come anche Euristeo si rifiutò di rendere merito all’Eroe tornato dal lungo viaggio, accusandolo di aver ricavato - o comunque cercato - un guadagno dalla missione che gli era stata affidata. Sdraiato sull’erba, sotto la chioma di un albero, si divertiva a cercare forme fantastiche tra le foglie. Ritagli di azzurro sbucavano tra i rami come tessere di un mosaico. Il colore del cielo limpido faceva da sfondo ai suoi giochi d’immaginazione.
Meritato era il riposo di quel viandante: dopo tanto camminare, aveva deciso di fermarsi e riprendere fiato. Non mancava molta strada per raggiungere la meta. Numerose le storie che aveva ascoltato su quel luogo. Spesso le aveva sentite di sera in una locanda vicino casa, seduto davanti al fuoco. Ma lui non si riteneva credulone come gli altri e non aveva mai dato peso alle dicerie. Ora, sdraiato sull’erba soffice, pensava a queste cose e si congratulava con se stesso per aver preso la giusta decisione. Durante una bevuta, infatti, un amico l’aveva sfidato mettendo in dubbio il suo coraggio. Fu così che nacque la scommessa. Adesso che si trovava da più di un’ora all’interno della foresta, si sentiva sicuro di vincere dato che non gli era ancora capitato niente di strano e non aveva visto nulla di preoccupante. Con il sorriso sulle labbra, continuava a guardare le foglie pensando a come sarebbe stato bello tornare al proprio villaggio come un eroe. All'improvviso, un uccello passò davanti al suo sguardo e si andò a posare su di un ramo alto. Poco dopo, altri esemplari si unirono al primo. Lo guardavano senza emettere un suono. Un brutto pensiero attraversò la mente del viandante che si alzò e si guardò intorno. “Non sono i pennuti dei racconti,” pensò. “Non ho di che temere. Le bestie di cui ho sentito parlare hanno corpo e volto di donna, ali fatte di piume taglienti con le quali uccidono le loro vittime per potersi nutrire di carne umana. Questi che sembrano guardarmi devono essere solo uccelli curiosi”. Nonostante cercasse di calmarsi, la tensione si faceva sentire. Che buffo: era condizionato da storie alle quali non aveva mai creduto. Che strani scherzi gioca la mente! Gli conveniva tornare indietro sui suoi passi e perdere la scommessa, o continuare lungo il sentiero? Valutò che doveva trovarsi circa a metà strada e decise di proseguire. Con una scrollata di spalle si rimise in movimento. Man mano che avanzava, altri uccelli volarono alti sulla sua testa e si misero appollaiati sui rami degli alberi vicini. Provò a contarli, ma era impossibile. Si trattava di decine di pennuti. Alcuni più visibili di altri, nascosti dalle foglie. Con la schiena coperta di un velo di sudore e scossa da brividi di paura, arrivò verso la fine del bosco. Poteva vedere, aldilà delle ultime file di tronchi, la meta: il lago paludoso Stinfalo. Forse per darsi coraggio, urlò il nome dell’amico (avversario nella scommessa), che lo avrebbe dovuto aspettare d’altra parte della foresta. Non ebbe però modo di sentire l’eventuale risposta perché, all’improvviso, l’aria si riempì del rumore assordante di centinaia di ali e del frusciare di foglie scosse. Alzò gli occhi e vide un numero indicibile di uccelli alzarsi in volo. Erano molti di più di quelli che immaginava fossero nascosti. Erano così tanti che gli sembrò fossero le foglie stesse a staccarsi dagli alberi. Con la bocca aperta e lo sguardo pieno di terribile meraviglia vide sparire il cielo sopra la sua testa, coperto com’era di stormi. E poi udì un suono diverso. Non era lo sbattere frenetico di piccole ali, ma un possente, ritmico e cupo suono. Si girò e lo vide: il volto di una ragazza dal busto nudo sospeso a mezz’aria. Capì che le storie che aveva sentito erano tutte vere e gli venne in mente la terribile fine che lo aspettava. Ma non fece in tempo a rendersene davvero conto perché si sentì afferrare per le spalle e i suoi piedi persero il contatto rassicurante con la terra. In breve tempo, venne portato in alto. E quando si trovò nel bel mezzo degli stormi, urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni per liberare il terrore che gli stringeva il cuore. La missione che venne data a Eracle da Euristeo fu quella di allontanare quelle terribili bestie, ma quando l’Eroe giunse su di un’altura nei pressi della foresta era troppo tardi. Tutto era tornato tranquillo. Per stanare gli uccelli di Stinfalo, si avvalse di nacchere di bronzo dal suono così potente da essere udito a grande distanza. In un attimo, gli uccelli si alzarono nuovamente in volo, infastiditi da quel rumore che per il loro udito finissimo doveva risultare quasi doloroso. Eracle ne uccise molti trafiggendoli con le frecce avvelenate, ma dovette usare anche reti e bastone per difendersi da quelli che osarono avvicinarglisi. La maggior parte di loro, però, fuggì e si allontanò. Alcune delle storie più antiche raccontano che questi animali fossero allevati da Ares, il terribile e irrazionale dio della guerra che si contrapponeva alla raffinata stratega militare Atena. Pare che proprio nell’isola di Ares, nel Mar Nero, i fuggitivi trovarono riparo, riuscendo a scappare dalla battaglia. ![]() Erimanto, una montagna molto cara ad Artemide. Sulla sua cima, infatti, si dice che la dea amasse raccogliersi e danzare da sola. Gli abitanti dei paesi vicini, invece, guardavano alle sue pendici con ansia e preoccupazione. Da quella parte si vedeva arrivare, quando Artemide riteneva di dover infliggere una punizione, un enorme cinghiale dalla ferocia insaziabile. Una furia che si abbatteva sui campi dei contadini, portando distruzione e morte. A Eracle non venne ordinato di uccidere il mostro – cosa che sarebbe stata forse più semplice – ma di catturarlo vivo e di portarlo a Micene per mostrarlo al re. Per poter giungere sul monte Erimanto, egli dovette attraversare nuovamente il paese di Arcadia. Tra l’ultima valle e il monte si trovava un altopiano coperto dai verdi boschi di Foloe. Là, in mezzo a quegli alberi, vivevano i Centauri, esseri mitologici semi-animaleschi. Mentre attraversava la foresta, l’Eroe s’imbatté in uno di questi: Folo, così si chiamava, si dimostrò ospitale e lo invitò a rifocillarsi nella sua caverna, dove avrebbe trovato anche Chirone, il più saggio di loro. Mentre i tre condividevano un pasto a base di carne, venne aperta una grossa anfora che pare fosse stata regalata da Dioniso in persona. Il profumo del vino si diffuse nell’aria e attirò numerosi Centauri che si unirono al banchetto. Questi bevvero molto e diedero vita ad alcuni litigi che ben presto si trasformarono in una vera e propria battaglia senza campo. Eracle li inseguì e li scacciò, colpendone alcuni con un bastone e altri, più distanti, tirando con l’arco. Purtroppo, Chirone venne colpito accidentalmente ad un ginocchio da una delle frecce (con la punta intrisa del veleno di Idra), scoccate dall’Eroe. Nonostante le cure, non fu possibile sanare la ferita e il saggio Chirone si ritirò nella caverna in preda a terribili dolori. Non potendo né guarire, né morire, aspettò là il proprio destino che racconterò forse più avanti. Mi limito a dire che è da lui che nacque la costellazione del Centauro, dopo che Zeus decise di portarlo in cielo per averlo vicino a sé. Per Folo, invece, non ci fu scampo. Durante la battaglia, si avvicinò al corpo di un avversario trafitto da una delle frecce avvelenate. Esitante, ma curioso, estrasse l’arma per osservarla meglio nel tentativo di capire come, un oggetto così piccolo, avesse potuto uccidere un essere tanto grande. Forse a causa del troppo vino, o forse solo per sventura, la freccia gli sfuggì dalla presa e cadde, infilzandolo e causando la sua morte. Con dolore, Eracle seppellì il corpo dell’amico e decise di abbandonare il bosco per riprendere il cammino alla ricerca della tana del cinghiale. Quando la trovò, spaventò l’animale per farlo uscire allo scoperto e lo inseguì spingendolo verso le alture coperte dalla neve. Solo là poté definitivamente catturarlo usando un laccio. Stordita la bestia, se la caricò sulle spalle (come aveva fatto per la cerva), e tornò a Micene. Ad aspettarlo, il re… che alla vista del mostruoso cinghiale si era nascosto nella “botte” di bronzo, fatta interrare già dopo la prima missione. Di Euristeo, l’Eroe poté vedere solo la testa e le braccia che spuntavano dal buco. Scritto e postato da Diego De Lorenzi |
Archivi
Luglio 2018
Categorie
Tutto
|